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Storia e fantascienza dalla Città di Giove Anxur. “L’Uomo dal Cappello di Panama”. Di-vino incontro in una caldissima estate terracinese

scritto da Redazione
Storia e fantascienza dalla Città di Giove Anxur. “L’Uomo dal Cappello di Panama”. Di-vino incontro in una caldissima estate terracinese

Quando incontrai l’uomo dal “Cappello di Panama”, era una di quelle sere d’estate dove il caldo è talmente afoso e insopportabile, che neanche a distanza di anni riesci a dimenticare quel senso sgradevole di appiccicoso sulla pelle.

Con un simile clima uno dei pochi luoghi dove si può cercare refrigerio, è sedersi senza muovere muscolo alcuno sulle scale della chiesa di San Cesareo.

E’ una straordinaria location, non solo per le migliaia di cittadini che ha sempre attratto e per gli incontri che permette di fare, ma anche perché sul calar della sera, per una magia che si può bene definire divina, il luogo è  attraversato da un fresco e consolante venticello

L’uomo dal “Cappello di Panama” era seduto sulle “rate sante della chiezia nostra” (così chiamano quel posto gli anziani terracinesi), con la sola compagnia di una bottiglia di vino, anche molto commerciale.

Di primo acchito non mi pare avesse un bell’aspetto: indossava un vestito di un colore indecifrabile e anche d’insufficiente manifattura, con la pelle del viso di un pallore innaturale, propria di chi evidentemente vive l’esistenza terrena di notte.

La mia considerazione alla persona veniva però interrotta dal rumore della bottiglia di vino che l’uomo aveva inavvertitamente fatto cadere e che rotolava, senza rompersi, lungo le scale della chiesa.

Non so per quale ragione abbia io raccolto quella bottiglia al termine della sua breve corsa e riconsegnata, con il poco liquido rimasto, al legittimo proprietario.

Un gesto, però, che l’uomo dal “Cappello di Panama” giudicava cortese, tanto che mi chiese di condividere la serata con lui, facendomi partecipe di una stravagante, avvincente ed esoterica storia sulla città.

Iniziò nel confidarmi che in gioventù era stato un attento studioso di storia antica, accanito viaggiatore e curioso archeologo, e su Terracina aveva fatto delle scoperte importanti sull’origine del nome.

Poi, con fare di attore consumato, iniziò a raccontare: “Nell’anno mille a. C. una spedizione navale composta da greci, fenici e persiani era in navigazione lungo la costa tra Gaeta e San Felice Circeo alla ricerca di un luogo strategico per l’avvistamento delle navi in transito.

La flotta, investita da un fortunale, fu obbligata ad approdare su la spiaggia di Levante di Terracina.

Gli argonauti saliti sulla collina posta alle spalle della città, mentre ammiravano la straordinaria visione marina, notarono che da un foro posto al centro della “platea” del monte salivano di tanto in tanto enormi soffiate d’aria dalla sottostante frattura rocciosa.

Immaginarono subito la presenza di un respiro divino, che avrebbe potuto concepire un vaticinio proveniente direttamente dal Dio Sole.

Stregati dal luogo e dalla possibilità di comunicare direttamente con gli Dei attraverso quel respiro emesso dalla montagna, quegli uomini fermarono il loro viaggio e in soli dieci anni innalzò un tempio, chiamando la nobile persiana Kiras a officiare i riti inaugurali.

Kiras, adagiava su una grata di legno delle foglie secche che sospinte in alto dal respiro divino ricadevano a terra, componendo e rivelando così la sacra risposta che gli Dei facevano giungere agli umani fedeli.

Quel sacro respiro consacrò agli Dei la “trakea”, “trakeia”, “traina”, la quale divenne tale per una rivincita greca di “un divino fanciullo solare” posto in devozione dentro questo tempio dai dodici sacri portali e con il sovrastante tempio votivo eretto sulla terrazza orientato con i lati esposti verso i quattro punti cardinali, con l’asse spostato di 35 gradi come ancora oggi i visitatori possono costatare.

E venne fuori così questo “fanciullo solare” con il nome di Giove Anxur – Giove fanciullo – continuava convinto l’uomo dal “Cappello di Panama” – quando nella mitologia greco-romana non è mai stato consacrato alcun “fanciullo solare” che derivava le sue origini dalla divinità mesopotamica.

Nel tempo il nome della pitonessa fu tramutato in una sorta di “kirkos” che poteva significare isola o terra circondata dalle acque o il sole stesso per il suo moto circolare intorno alla Terra.

Con l’avvento degli Etruschi il prefisso TRA (cheia) fu tramutato in TARK che significava “re” (pur sempre divino d’origine) e quindi “Trakuinia” o terra-città dei re divini dal che: “Tarrakina” divenne “Terracina” per i romani.

La maga Circe, che ebbe la sua effettiva dimora nel tempio solare di Giove Anxur, nella predetta confusione dei nomi fu trasportata nella sua isola di Circe.

In seguito i Volsci per beatificare la loro roccaforte ribattezzarono Terracina in Anxur.

Nel 312 a. C. a difesa della sottostante via Appia, che aveva il suo passaggio nel vallone a nord, fu posto il tempio che divenne nella sua ristrutturazione: “tempio fortezza”.

Dopo 2989 anni ancora oggi sotto il porticato del tempio c’è il sacro foro della “divina trakea” da dove ebbe origine il nome di Terracina.

Il “foro” è ancora aperto (seppur in parte ostruito) ma nessuno nella nostra intangibilità culturale presta la benché minima attenzione, né tanto meno è protetto da un “sacro”ringhierato.

Nell’apocalisse sta scritto “e i cinque caddero”: nessuno s’è mai curato di sapere chi fossero questi: dove, come, quando e perché caddero.

Eppure stanno lì, distaccati dal tempio solare, il Tempio di Giove Anxur.

Il sole, in altre parole il dio solare, che a quel tempo orbitava attorno alla Terra impiegava 365 giorni, un numero dispari irregolare.

Per primi furono i matematici babilonesi a porre l’angolo giro in 360 gradi (giorni), dopo di che tutti gli altri, compreso Eratostene, che per primo calcolò la circonferenza del nostro pianeta in modo esatto, dopo di che Posidonio di Apamea nel suo rinnovato calcolo (nel 100 a.C.) portò la circonferenza terrestre a 29.000 chilometri (da 40.000).

Così il grande navigatore Cristoforo Colombo nel suo sbarco all’isola di San Salvador pensò bene di essere giunto alle Indie Orientali, battezzando come “indios” tutti gli indigeni.

In ogni modo quei “cinque che caddero” distaccati dalla cosiddetta orbita solare e assunsero nomi divini.

Per i Persiani furono Entil (la terra), An (il cielo), Ea (l’acqua), Samash (il sole stesso), Nanna (la luna).

Per la civiltà della Mesoamerica divennero pur essi delle divinità apocalittiche ed ebbero il loro secolo composto di 53 anni (48 + 5): gli ultimi cinque anni d’ogni secolo erano sempre ricolmi di terrore e di morte.

Per noi e per la nostra cultura, il Piccolo Tempio con cinque sacri portali, distaccato dal vero grande tempio, con dodici sacri portali, le dodici costellazioni dello Zodiaco che facevano e faranno nei secoli a venire – corona intorno al dio luce, il Sole, divenne così “Sant’Angelitto”.

Nell’interno, sulla parete posta a est, per la rivincita Cristiana contro ogni credenza fu dipinto piccolo Angelo, con la sola testa fiancheggiata da due ali.

Nel dopoguerra tale immagine è andata sempre più spegnendosi, ma il nome di Sant’Angelo è rimasto a quella dolina divenendo “Monte Sant’ Angelo”.

Col passare dei secoli e la “erosione palatale” della “erre” si creò una notevole confusione nell’etimologia di Pisco Montano.

In origine era un derivato etrusco-romano “Prisco Montano”, antico monumento roccioso (abbiamo sul nostro territorio la più colossale statua naturale zoomorfa di tutto il mondo, alta ben 127 metri).

“Porta “14 Settembre 1870” (Porta Napoli) – continuava incalzante – qualcuno ha rischiato nel tempo di ribattezzarla “La Porta del Sole” perché è rivolta verso est, dalla parte dove sorge il sole.

Mai nessuno ha contato con cognizione di causa gli anelli di pietra decorativi della porta stessa: sono 12 una parte e 12 dall’altra per un totale di 48 anelli.

Tutte le religioni hanno un duplice linguaggio: uno esoterico, in altre parole “segreto” e l’altro essoterico, il linguaggio dato dal popolo.

Nella descrizione esoterica dell’Apocalisse leggiamo che: 24 vegliardi biancovestiti circondano il trono della Luce – il trono di Dio;  12 invece le costellazioni dello Zodiaco che fanno cerchio da millenni.

Un cerchio figurato, ben s’intende, di giorno e di notte, divenendo così 24 immagini luminose.

Poi il Sole, orbitando intorno alla Terra, precipitava nella notte, nel buio dell’inferno e qui incontrava altri 24 demoni posti al suo servizio: in tutto fanno 48 simboli solari.

Su Porta Napoli si alzano 4 merli posti lì non certo per pura decorazione architettonica, rappresentano, infatti, le “quattro ere preistoriche”, così come riportato dal calendario messicano.

Gunz – Min – Riss – Riss – Wurm: le quattro ere glaciali che per oltre un milione di anni tormentarono il nostro pianeta.

Gli Incas sulla loro Porta del Sole di Tuayanaco non posero questa sorta di “quattro eroi”, i cavalieri dell’Apocalisse, ma li trasferirono sul lago Titicaca, il lago più alto del mondo posto sulle Ande, a circa 4.000 metri di altezza, e da quelle gelide acque rimbalzavano: Roca, Viracocha, Pachacutec, Tupac Yupanqui.

L’altro monumento con 48 sacri portali: 12 e 12 al primo piano e 12 e 12 al secondo piano è la settima meraviglia del mondo: la tomba della regina egizia Atsepsut del XIV secolo a.C. posta nella Valle di Der el Bahari.

Così sono tre i monumenti in tutto il mondo che riportano le 48 immagini solari dell’Apocalisse (che significa rivelazione) come la “Porta 14 settembre 1870”.

Il famoso Polifemo a suo tempo parlava un dialetto affine al greco cosicché Ulisse e Polifemo si comprendevano benissimo. 

Ulisse, autentico grande corsaro di quei tempi, era in grado di poter parlare un gergo cosmopolita.

Il nome di Polifemo non riesce a trovare un qualche significato almeno nella lingua greca per quanto riguarda la leggenda omerica.

Verosimilmente il suo nome doveva significare in ogni caso “pelope” in lelasgo indica il “pastore”.

Il suffisso “em” polyph – em” è un segno particolare privo d’ogni sorta di vero significato.

Polifemo gli chiese come si chiamasse e Ulisse, il cui vero nome era “Odisse”, non perché questa fosse la forma originaria del suo nome ma perché così era pronunziata nella sua isola natale, lo rilevò.

Dunque, esisteva una variante del nome “Olisseo”, la variante più antica  corrispondeva alla forma latina “Ulixes”.

Tale indicazione, quella di “Ulisse”, è da noi molto nota, erosa dai “volisi” – “volsci” è una forma generica del nome di “liguri”.

Nell’antico territorio del Portogallo già preesisteva una popolazione detta dei “lusi” o “lisi” ovvero “olisi” la cui capitale era “Olisi- po” (cioè “Olisi-Bona” Lisbona, la fortezza dei Lisi e i campi del Portogallo si chiamano, in effetti, i “Campi Elisi” cioè campi dei Lisi).

Se è difficile notare la trasformazione di una “d” in una “l”, al contrario ciò rimane più semplice: “lacrima” in greco “dakryma”, in inglese “teagr” (tear) la radice è “lak” (cosa liquida, lucente) o “kal” (suono, lamento).

“Lingua” connesso con il latino “loqui”, in greco “lego”, in tedesco “zunhe”, in inglese “toungue” (radice kloc), che si ritrova in francese con “claque” “cloche”.

“Olisse”, dunque, è una forma più antica di “Odisse”, ma “l’Ulixes” della leggenda omerica pronunciava il suo nome in “Ulisse”.

Da ciò la confusione.

Quando Polifemo chiese a Ulisse, quale fosse il suo nome, questi disse con sommo candore e innocenza:“mi chiamo Ulisse- Odisse – Nessuno”.

Omero, che giungerà molto tempo dopo, non comprende più l’esatto significato delle parole come ripetute dagli “aedi” (cantastorie) dell’epoca.

Per lui è soltanto Odisseo, secondo una denominazione più tardiva e diversamente accettata.

Perciò che Ulisse inganni Polifemo fu una grande fortuna che il suo nome di “Odisse” fosse frainteso dai Ciclopi e quindi scambiato per “Utis”, in altre parole per “Oudeis” cioè “nessuno”, cosa questa che attesta come i ciclopi intendessero il greco.

Altra classica confusione la possiamo riscontrare con “parto cesareo”.

Caesar era il nome nobile del casato dei “Cesari” sicché i Romani avevano tre nomi: nome, cognome e pronome e questo era della gente Julia.

Nello stesso tempo esisteva il nome “caesus” (participio passato) di “caedo” dal verbo”caedo” tagliare e a noi è rimasta la cesoia che ha nulla a che fare con Caio Giulio Cesare così come noi tutti, possiamo avere cognomi che ripetono per affinità: “mare” “pacifico” ecc.

Il fondatore di Tarquinia fu Tagete, il genio misterioso che balzò fuori dal solco di un aratro, fu altresì maestro nell’ingegneria e nelle arti divinatorie.

Inoltre si vuole che sia Tarkonte figlio o fratello di Tirreno, da cui il nome del nostro mare.

Tarkonte è rimasto come “eponimo” di Tarquinia dal greco “eponymos” ciò che impone il proprio nome a qualche cosa e quindi abbiamo l’eroe eponimo fondatore leggendario o no di una città.

Eponimo in Grecia fu il magistrato che in Atene imponeva il nome di “Lamo” dato a Terracina e non fu per niente una “elucubrazione”, infatti, come derivato indoeuropeo significa “divino” così Beth – lem, Jerusa-lem.

Città divine: Dalai-Lama e Panchen-Lama del Tibet, rappresentanti divini per metempsicosi, tale derivazione fu trasmessa ai “Lama” dalle Ande, addirittura nell’antico Egitto c’era Bubastis, la città sacra per i gatti.

La Sfinge, per metà umana e per l’altro animale, rappresenta il nostro “essere presente” “nell’essere passato”, il regno animale è stato sempre e comunque divinizzato: il bue e l’asinello tali sono rimasti nella capanna di Beth-lem.

Da Ulisse la pitonessa Circe ebbe due figli: Anteiaf e Telegono per aver dissacrato la sua funzione divina fu uccisa e arsa e le sue ceneri furono poste in un’urna cilindrica di terracotta unitamente ad una piccola sfera d’oro, la “sfera lotica”.

Il 3 settembre 1943 fu ritrovata sepolta sul lato nord- est del Tempio di Giove Anxur e il 24 settembre a causa del bombardamento di Terracina andò persa.

Indubbiamente tale reperto archeologico rappresentava il più famoso di tutti i tempi: la Maga Circe nel fiore di loto, così come appreso in Athos (Grecia) nel maggio del 1942, prima ancora che il suo corpo fosse arso e incenerito, fu decapitata.

La sua testa fu mummificata e incastrata dentro un foro della “trachea” alla profondità di circa 15 metri, riposta in un’urna d’oro, replicando così la sua immagine.

Per tanti secoli questo “foro tracheale” ha continuato a vivere e nessuno l’ha mai ricolmato perché tutti hanno temuto, affinché il nostro spirito anche dopo la morte continuasse a sopravvivere proprio nel luogo dove ponemmo in vita la nostra sede prediletta”.

E mentre pronunciava queste parole, l’uomo dal “Cappello di Panama” iniziò lentamente a scendere le scale della Cattedrale con l’intento di attraversare la piazza.

Giunto al suo centro, con rinnovato vigore e a voce alta, esternò l’ultima riflessione.

“E’ strano a dirsi ma effettivamente i ciclopi avevano un solo occhio sulla fronte… probabilmente non ci hai mai fatto caso, ma adesso guarda meglio… lo “specchietto” non servì soltanto per incantare le allodole, ma è anche magia e ancora oggi i “selvaggi” hanno paura di questo paradigma posto sulla fronte…

Dopo tanti secoli quelle “fiamme lucenti” stanno ancora lì, sulla “fronte” delle forze dell’ordine e brillano di uno strano chiarore.

Poi con sguardo verso il vuoto gridò forte: “Se avete la coscienza sporca, vi rispecchiate dentro quelle fiammelle e vi metterete paura”.

Poi girò le spalle e imboccò uno dei vicoli del centro storico, scomparendo nel buio della notte.

 

e.l.

Si ringrazia il sig. Innominato.

 

 

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