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Terracina: la storia il mito … Tempio, Basilica, Cattedrale, Duomo (prima parte di tre)

scritto da Redazione
Terracina: la storia il mito … Tempio, Basilica, Cattedrale, Duomo (prima parte di tre)

Viviamo in un mondo fantastico e trasformativo.

La genesi continua degli aspetti, il perenne divenire della vita, produce in noi, davanti alla scoperta dello “stato iniziale” delle cose e del loro scomparire, del venire improvvisamente alla luce e un momento dopo, precipitare nel buio generativo, la smisurata dolcezza della “scoperta dell’ignoto”, e a un tempo lo spavento, l’enorme paura dell’inafferrabilità del reale.

“Indifferente è per me il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò far ritorno” (Parmenide di Elea, fr.5).

Nella comprensione dei fenomeni poi, l’origine delle parole non ci soccorre, l’etimologia, come una cattiva sorella non ci aiuta.

Il linguaggio stesso si pone, come ultima ragione, il mutismo dei fenomeni, mentre la parola diviene lo strumento per trasformare un mondo di luce e di silenzio, di eventi e di apparenze, in entità tenebrose e scheletriche.

La lingua, questa limitata esperienza dell’uomo nel tentativo di tradurre le forme di vita, le incarcera nella “prigione semantica”, avviandole a un destino di morte.

Il silenzio allora, contro il generale convincimento, non può essere e non è manifestazione, ma l’origine di essam, il luogo e il tempo in cui tutte le forme sono essenza e manifestazione, mentre, viceversa, nel regno della lingua, le esperienze sono mutilate e la vita si spegne.

“Sema”, oltre a segno indicava il segnale della tomba del significato.

E non è una coincidenza: la parola “termine” (sinonimo di parola), dal latino terminus, era usata per indicare il con-fine e la pietra sepolcrale, e la parola de-finizione, apparentata dai latini a funus-funeris, cioè evento funerario, da cui funerale.

Le parole, dunque, sono “termini” che “definiscono” e la lingua, il luogo buio e segreto, ove gli accadimenti di vita sono sequestrati e ammutoliti.

Nell’incompatibilità tra parola e fenomeno è perduta ogni responsabilità di accostarsi al mistero e all’enigma delle cose.

Imprigionati dalla semantica, non ci fermeremo più come Edipo davanti alla Sfinge ad ascoltare gli enigmi, non ci recheremo più a Delfi, per ascoltare i presagi del dio che parlava dall’oscurità, poiché abbiamo smarrito l’arcana dimensione del mondo, la quale è essenza di linguaggio, è silenzio, in cui si manifestano i fenomeni, gli eventi, le apparenze, i prodigi, i miracoli come tante creature viventi.

Come accostarsi allora alle parole: Tempio, Basilica, Cattedrale, Duomo, senza rimanere confusi dall’insignificanza dei termini e pur tuttavia turbati dallo straordinario evento umano, lo stupefacente processo ideale, l’incredibile fenomeno spirituale, cui essi vorrebbero dar senso, corpo e vita, ma che hanno da tempo ammutolito?

Parlare del Tempio è pensare necessariamente alla sua antitesi, la Cattedrale.
Parlare dell’Antico è pensare per necessità al Medioevo.

E’ pensare all’insormontabile contrasto tra mondo pagano e mondo cristiano, tra politeismo e monoteismo, alla contrapposizione tra natura e spirito, tra gioia di vivere e rinuncia al mondo, l’affermazione dei sensi e della vita terrena, del desiderio di lotta e di vittoria, di eroi e di destino da un lato, e di ascesi, di speranza dell’aldilà, di amore che tutto ricomprende, di santi e di provvidenza dall’altro.

Due mondi abissalmente diversi eppur vicini, la cui materializzazione simbolica e visibile: il Tempio greco e la Cattedrale gotica, si pongono con la prepotenza degli atti assoluti davanti ai nostri occhi.

Da una parte il temenos greco, il dominio sacro dell’inconoscibile, il Templum poi dei latini, “una delle quattro parti del cielo”, corrispondente al terreno consacrato, “l’area divina” su cui fu eretta una forma essenziale e plasticamente compiuta, fondata sulla colonna, radice e modulo di una struttura, dove gli spazi vuoti più dei pieni, si pongono come dominanti: non meri intervalli della forma ma simboli del non essente.

Nel cuore di quest’edificio, la cella, sua ragione finale, è appena visibile.

 

L.

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